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Pubblichiamo un interessante articolo dell'Avv. Valentina Mian, socia del CAV Luna sui reati culturalmente motivati.
REATI CULTURALMENTE MOTIVATI: TRATTAMENTO PENALISTICO DEL FATTORE CULTURALE. BILANCIAMENTO TRA PERSONALIZZAZIONE DEL GIUDIZIO DI COLPEVOLEZZA E TUTELA DELLA VITTIMA
Il breve elaborato che mi appresto a redigere prende spunto da un caso che recentemente ho avuto modi di esaminare nella pratica professionale.
La vittima in questione era una giovane studentessa di diciannove anni, di cittadinanza italiana di diciannove anni, figlia di una coppia transfrontaliera (padre marocchino e madre italiana) con la quale era ancora convivente. La ragazza si era rivolta alle autorità denunciando che “la situazione in famiglia era diventata insostenibile” e che “quanto sopra era attribuibile alla cultura del padre che conserva la mentalità ed i modi di origine del suo paese di origine”.
Nel corpo della querela (nella quale i CC hanno qualificato il reato ex art. 572 cp – maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli) la giovane denunciava di essere stata sottoposta ad una serie di “atti puntivi” (consistenti in lesioni, pedinamenti, ingiurie) per aver violato precetti educativi che la stessa definiva esser propri della cultura marocchina, cosicché comportamenti pacificamente ammessi, quali il fumare, il conversare con amici di sesso maschile, consumare occasionalmente bevande alcoliche e professare la religione cattolica, avevano legittimato il padre a “punirla”, con la compiacenza della madre cittadina italiana per nascita.
La ragazza denunciava che il permanere nel contesto familiare le provocava un forte stato di ansia e di disagio tale per cui – seppur priva di autonomia economica – si era rifugiata a casa di una non meglio individuata amica e si era rivolta al competente consultorio per avere informazioni sui propri diritti ed avviare, con l’aiuto dei servizi sociali territoriali, un progetto di autonomia.
Preciso subito che la ragazza dopo alcune settimane è rientrata a casa ed al momento non ha manifestato alcun interesse a proseguire l’azione giudiziaria. Non quindi sono in grado di fornire dettagli sull’esito delle indagini, tuttavia il quesito sotteso alla fattispecie è particolarmente complesso e rimanda al concetto – rapsodico – di reato culturalmente motivato e delle conseguenze che sul piano sanzionatorio si determinano qualora, all’esito del giudizio, si accerti che l’autore nell’infrangere il precetto penale si era adeguato ad una regola culturale diffusamente e generalmente osservata nell’abito del gruppo etnico e/o religioso di appartenenza.
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Non è affatto semplice individuare una nozione condivisa di “reato culturalmente orientato”. Il rischio che si corre è quello di rimandare ad una nozione eccessivamente frammentata (o se si preferisce localizzata/parcellizzata) di cultura, con la conseguenza di considerare culturalmente motivato ogni reato commesso sotto l’influenza di un modo di pensare, diffuso anche in un micro-gruppo familiare o sociale.
Molti autori (BASILE; DE MAGLIE) concordano sulla necessità di delimitare la nozione penalisticamente rilevante di cultura; richiamano quindi, il concetto elaborato da Kymlicka di “societal culture”, consistente nell’insieme dei modi di vivere generalmente intesi, propri di coloro che appartengono ad una data etnia o comunità nazionale. Da siffatta appartenenza dipende la formazione di uno specifico insieme di valori in base a cui i singoli adeguano il proprio comportamento, sia in ambito strettamente familiare che sociale. Altri autori sono scettici, assumendo che limitare la sfera dei reati culturalmente motivati ai soli reati commessi da membri di minoranze etniche è eccessivamente limitante. Conseguentemente ritengono che debbano essere classificati come tali anche quei reati il cui autore non appartiene ad una minoranza etnica ma che ha aderito a “religioni, sette, tradizioni, concezioni del mondo” caratterizzate da norme culturali in conflitto più o meno evidente con le norme giuridiche positive (BERNARDI).
Ciò premesso, per qualificare un reato come culturalmente motivato, in sede giudiziaria occorre provare che l’autore ha un bagaglio culturale diverso da quello dell’ordinamento in cui si è consumato il delitto e che il comportamento in contrasto con il precetto penale, è conforme ad una regola diffusamente osservata nell’ambito del gruppo (etnico/religioso) di appartenenza.
Una volta qualificato il reato come culturalmente motivato, l’interprete deve verificare quale siano le conseguenze sul piano della responsabilità penale dell’autore; sarà sanzionabile? Potrà questi beneficiare di un trattamento sanzionatorio favorevole, o al contrario sarà sottoposto ad una pena più grave?
Le soluzioni proposte a livello normativo sono varie. Si pensi agli articoli 583bis c.p. (reato di pratiche di mutilazione di organi genitali femminili) o a quello ex articolo 600octies c.p. (impiego di minori in attività di accattonaggio), la cui previsione ha spinto autori dall’indiscussa preparazione a qualificare il sistema penale italiano come assimilazionista e discriminatorio.
Senza voler peccare di semplicismo, ma per esigenze di sintesi, nella prassi dei Tribunali italiani si fa un bilanciamento fra il diritto di esprimere una convinzione religiosa/culturale ed i diritti e le libertà fondamentali dell’uomo; invero il comportamento culturalmente orientato non può in ogni caso ledere i diritti inviolabili altrui. Si pone quindi il problema di individuare quali tra i diritti fondamentali siano assolutamente inviolabili e quali per contro, possono soggiacere a compromessi, operazione interpretativa culturalmente non neutrale.
La giurisprudenza insegna che i reati culturalmente orientati che hanno una bassa offensività (ad esempio la pretesa di importare foglie di khat ad uso medicinale) sono tollerati; mentre reati con un grado di offensività maggiore che comportino in concreto lesioni di libertà fondamentali (ad esempio il diritto alla salute, all’integrità psicofisica) siano puniti severamente.
Tecnicamente, in giurisprudenza si è stabilito che il reato culturalmente orientato non esclude la configurabilità del dolo (in particolare la Suprema Corte ha ritenuto che il richiamo alla cultura ed al costume del paese d’origine dell’imputato non possa escludere l’elemento psicologico del reato).
Per i reati a bassa offensività, in giurisprudenza si è ricorso: 1) eventuali clausole di illiceità speciale, presenti nelle relative norme incriminatrici (clausole legislative del tipo “senza giustificato motivo”, “senza giusta causa”, etc.) 2) esercizio di un diritto, invocato in funzione scriminante ai sensi dell’art. 51 c.p.: il ‘diritto scriminante’ – nei casi in cui la condotta realizzata è imposta da una norma culturale che trova al contempo riscontro anche in una norma religiosa – potrebbe essere il diritto di professare liberamente la propria fede (art. art. 19 Cost., art. 9 CEDU). 3) ignoranza inevitabile della legge penale violata (art. 5 c.p. come riletto da C. cost. 364/1988): si tratta di una soluzione in effetti già adottata da alcuni giudici di merito rispetto a reati culturalmente motivati di rilevanza bagatellare, i cui autori erano stranieri appena immigrati in Italia, o di passaggio per l’Italia, con scarsa o nulla conoscenza della nostra lingua, in arrivo da paesi dove le condotte incriminate non costituiscono reato; 4) errore sul fatto, che esclude il dolo, ai sensi dell’art. 47 c.p.: in alcuni casi giurisprudenziali è stato affrontato il quesito se la particolare matrice culturale dell’imputato, avendo provocato un’erronea percezione della situazione di fatto, costituente il reato, fosse idonea ad escludere il dolo ai sensi dell’art. 47 comma 1 c.p.
In caso di condanna, la matrice culturale è stata considerata ai sensi dell’articolo 133 cp per la determinazione in concreto della pena afflittiva.
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Il tema è di grande attualità, anche a fronte dell’imponente ondata immigratoria e della scarsa se non addirittura insufficiente attività di mediazione culturale.
Socia CAV Luna Onlus
Avv. Valentina Mian
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