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Il valore del racconto della vittima di violenza domestica nel processo penale; ciclo della violenza e processo penale intelligente quale strumento di elaborazione del trauma. Avv. Valeria Rielli

Articolo redatto dall’Avv. Valeria Rielli

Il valore del racconto della vittima di violenza domestica nel processo penale; ciclo della violenza e processo penale intelligente quale strumento di elaborazione del trauma.

Le operatrici dei Centri Antiviolenza, ed, in particolare, delle Avvocate che assistono le donne vittime di violenza domestica, si sentono spesso dire, prima di presentare una denuncia, od anche nell’ambito di un processo penale, “nessuno mi crederà…lui me lo diceva sempre...” “si ritorcerà tutto contro di me” “io ho negato…speravo che potesse cambiare” “ …e poi la paura di denunciare” “perché insomma avevo anche dei figli con questa persona violenta, sicchè anche la paura che mi potessero togliere anche i figlia..”

Quando la donna che subisce violenza giunge finalmente ad effettuare delle dichiarazioni accusatorie nei confronti del maltrattante, queste sono spesso frutto di una decisione sofferta ed esternate, talvolta, proprio in un momento di svolta della propria vita, una volta effettuato un percorso di riscatto, reso possibile con l’aiuto di soggetti qualificati quali le operatrici dei Centri Antiviolenza e della rete dei Servizi, da cui si sente supportata, oltre che al sicuro e protetta (ad esempio quando viene inserita in una casa rifugio), lontana dall’uomo che l’ha percossa ed umiliata per anni e che ha manifestato comportamenti violenti anche nei confronti dei figli.  Fino a quando la donna sa di dover tornare a casa da un uomo che può essere violento con lei e con i propri figli, si guarda bene dal fare dichiarazioni che possano mettere a rischio la propria incolumità e quella dei figli.

Il percorso di autoconsapevolezza di chi subisce violenza è molto difficile, perché la donna non riconosce subito la relazione come violenta, anzi la maggior parte delle vittime ritiene la violenza semplicemente come un “qualcosa di accaduto” o, nella migliore delle ipotesi “qualcosa di sbagliato” ma quasi mai sono consapevoli che si tratta di un reato. In molti casi, la molla che le ha convinte a rivolgersi alle forze dell’ordine o chiedere aiuto ai Centri Antiviolenza è senz’altro una: i suoi figli.

Affrontano il processo penale, a volte, ancora con poca consapevolezza o sempre assuefatte alla violenza. Con vergogna, disagio, imbarazzo e senso di colpa. Paura.

Riporto lo stralcio delle dichiarazioni di una mia assistita rese in sede di processo penale a carico del marito, imputato del reato di maltrattamenti in famiglia: “mi ricordo che anche una volta, così…col bimbo, gli ha dato un calcio nel sedere facendo proprio veramente male al fondoschiena…però anche lui no, questo mi ha fatto dire basta! Perché fino a che picchiava me e basta non era giusto; ma poi quando cominciava con i bimbi non volevo perché dicevo: a me mi riduce così, se da’ uno schiaffo oppure un cazzotto così ai bimbi che fa, me li ammazza?”

In sede di processo penale, il racconto della vittima del reato è il fulcro probatorio e spesso evoca molta sofferenza. A volte possiamo trovarci davanti una donna che si ritrae, per la paura, perché abituata a non essere riconosciuta, come donna e come persona. Ed il pubblico ministero o il Giudice, con non poca difficoltà riescono a farla parlare, a farle descrivere il suo vissuto. Altre volte, invece, non riescono più a tenere tutto dentro ed il racconto si fa sempre più ricco di particolari. Può capitare che aggiungano molti dettagli che non avevano descritto alle forze dell’ordine in sede di denuncia, o al proprio avvocato dopo ore ed ore resesi necessarie per la redazione dell’atto di querela.

Una parte importante del percorso di rielaborazione del trauma subìto dalla donna passa proprio dal processo penale perché vede “riconoscere” le proprie dichiarazioni dalle istituzioni.

Ed a questo proposito, la Giurisprudenza, di merito e di legittimità, ritiene che la testimonianza della persona offesa del reato, possano essere legittimamente poste, da sole, a fondamento della colpevolezza dell’imputato. Ciò anche in assenza di riscontri esterni, purchè il Giudice operi un vaglio scrupoloso delle sue dichiarazioni.

La Corte di Cassazione (Cass. Pen. Sez. VI n. 31309 del 13.05.2015) ha affrontato proprio il tema, ricorrente, nei processi per violenza di genere, dell’ambivalenza dei sentimenti provati dalla vittima nei confronti dell’aggressore, ritenendo che ciò, di per sé, “non rende inattendibile la narrazione delle violenze e delle afflizioni subite, imponendo solo una maggior prudenza nell’analisi delle dichiarazioni in seno al contesto degli elementi conoscitivi a disposizione del giudice”.

Quindi, il Giudice, per poter effettuare un efficace giudizio di credibilità e coerenza del racconto fornito dalla vittima di violenza domestica dovrebbe conoscere la natura e lo sviluppo dei legami normalmente intercorrenti nell’ambito delle relazioni violente. Tale è, proprio, il cosiddetto “ciclo della violenza”. E qui un ruolo importante è quello delle Avvocate che assistono le parti civili (le vittime, detto in altri termini), a cui è demandato il difficile onere di far capire come nella donna corrispondano parallelamente stati emotivi e affettivi differenti e fra loro contradditori. Gli imputati, è capitato, che a loro difesa producano fotografie che ritraggono la famiglia, la donne ed i figli, sorridenti, in diversi momenti di vita sostenendo che la vittima era felice…ma è proprio questa la dinamica circolare cui facevo accenno sopra: dopo un accumulo della tensione inizia una discussione tra un uomo ed una donna; la donna può avere più facilità dell’uomo nel parlare, oppure non vuole cedere; l’uomo sente che sta perdendo il controllo della situazione o sulla donna e ciò si trasforma in perdita del controllo su sé stesso. Ecco l’uomo agisce la violenza fisica. Vinta la discussione, l’uomo può provare vergogna, senso di colpa e pentimento: attiva quindi un ritorno all’ “affettività” creando una “luna di miele” che confonde la donna e che la porta a perdonarlo con conseguenze di minimizzazione dell’accaduto e abbandono delle logiche negative…perché lui cambierà.

La Giurisprudenza sta, inoltre, comprendendo che come tipica fenomenologia dei reati di violenza domestica possa essere anche la lunga serie di giustificazioni che le vittime spesso adducono a fronte delle evidenti conseguenze fisiche, improntate alla negazione della responsabilità in capo al partner, fino ad arrivare ad escludere ciò che è invece di tutta evidenza: una simile condotta non è per queste ragioni sufficiente a smentire la genuinità del racconto della vittima, ma anzi, lo avvalorano!

Per queste ragioni, basilare è la specializzazione di tutti gli attori della vicenda processuale penale: la polizia giudiziaria, il cui ruolo è fondamentale nella fase di prima raccolta del racconto della vittima e deve riuscire a creare un clima di serenità e di non giudizio. Del pubblico ministero, del Giudice ed anche dell’avvocato, sia esso della vittima ma anche dell’imputato. Quanto a questo, la formazione è importante per far si che si evitino condotte che tendano a impostare la difesa sulla sola attendibilità della persona offesa.

Insomma, concludo utilizzando le parole del Dott. Fabio Roia, presidente di Sezione del Tribunale di Milano, “un processo penale condotto con intelligenza costituisce una terapia fondamentale per chi ha subito violenza di genere”.

Avv. Valeria Rielli

Operatrice Centro antiviolenza Luna